EYES
WIDE SHUT, IL VOLTO CHE MUTA, Fermo,
200
Raccogliere segni
Giovanni Ercoli durante una passeggiata in un pomeriggio autunnale è “inciampato” nella marginalità e i suoi luoghi, ed esplorandone le tracce ha dato vita ad un' operazione assimilabile a una specie di archeologia del dolore. Prelevare e preservare i “segni visivi” del passaggio di esistenze umane in luoghi di costrizione, in questo caso nell’ex ospedale psichiatrico di Fermo, occuparsi di “resti” di ciò che era già di per sé emarginato e marginale, è un modo concreto per sottolineare l’importanza del fattore residuale... di ciò che sfugge alle logiche sociali della “normalità”. In questo senso vanno lette le opere Raccogliere segni, che offrono alla percezione e alla coscienza dello spettatore qualcosa che sarebbe altrimenti rimasto nascosto tra le pieghe dell’oblio. Ercoli scopre una parentela profonda tra i percorsi del segno contenuti nella serie delle sue opere Cardi nocivi e velenosi rovi e quei “reperti segnici”, spontanee autoaffermazioni d’individualità in bilico e in difficoltà. Intreccia e contamina, imbastisce i segni propri mescolati a quelli altrui su grandi superfici che dispiega nello spazio come stendardi che presentano una strana, inquietante e per certi versi anche meravigliosa “segnaletica del profondo”. Scrive l’autore: << Un rimescolamento che attraverso la rappresentazione porta qualcosa che prima non era, alla presenza. A rammentarci cose non conosciute, pensieri che non sapevamo di avere (...)>>. Elisabetta Longari
SUL
FILO DELL'ARTE, Offida 2002
Giovanni
Ercoli realizza delle tele attraverso un minuzioso impiego di matita, acqua e
colla. II colore che deriva risulta essere un tutt’uno con la forma. Anche in
questo caso si tratta di un'esecuzione lenta che permette all'artista di
esternare delle forme simili ad archetipi del pensiero, ad organi del corpo o a
paesaggi ideali. Le rotondità spesso si contrappongono agli spigoli e alle linee
rette dando l'impressione che la stessa vita umana sia una dialettica tra il
pensare e il fare. La dimensione fortemente onirica che scaturisce dal suo
lavoro denota un marcato atteggiamento di autoascolto, una psicanalisi fatta per
immagini, ossessiva o liberatoria a seconda dello stato d'animo di chi la
osserva. L'artista infatti non entra in merito al significato ultimo delle sue
opere, perché certe ragioni profonde possono essere spiegate soltanto attraverso
la loro evidenza.
Francesca Pietracci
WELCOME, 2001
Sofisticati,
leggeri, ma emotivamente caldi, i nuovi lavori di Giovanni Ercoli sopportano
dimensione di un formato ridotto, l'evocazione dell'universo sensibile.
L'artista dopo aver sperimentato per anni il discorso sulla materia e
sull'assemblaggio installativo, si dedica ora ad ascoltare e a rappresentare la
dimensione dello spazio interiore. Un lavoro di riflessione profonda capace di
dilatare il fare fino al meditare, di ricomporre un'unità estetica come impegno
di tutti i sensi, coinvolgimento di tutti i pensieri, rivelazione delle
possibili intuizioni. Un silenzio cosmico pervade le sue atmosfere, un tempo di
sospensione all'interno del quale le forme morbide e apparentemente organiche si
alternano a costruzioni geometriche di richiamo quasi tecnologico. Le singole
composizioni costruiscono una morfologia degli archetipi all'interno della quale
la linea curva si intercala con quella spezzata dando forma ad una serie
infinita di simboli riconducibili tanto alle culture occidentali quanto a quelle
orientali. Ma sarebbe superfluo passare in rassegna tale banca dati dal momento
che ogni spettatore può dare il via al suo viaggio per proprio conto ascoltando
la sinfonia del profondo che queste opere mettono in scena. Non solo dalle
forme, infatti, proviene questa netta sensazione, ma anche dalla gamma infinita
di tonalità che percorrono la distanza tra il bianco e il nero, tra la
riflessione e l'assorbimento della luce. Giovanni Ercoli afferma di vedere in
bianco e nero e di ascoltare a colori e questa credo sia la chiave di lettura
più aderente alle sue opere. Capovolgendo i termini, infatti, si tratta di un
silenzio capace di farsi percepire dall'occhio, dallo sguardo ossessionato e
stressato dell'essere contemporaneo. Un modo di fare arte, il suo, che per certi
versi diventa terapeutico sia per chi la pratica che per chi la osserva.
Francesca Pietracci
RAVE/RAKE, 2000
Antonella Micaletti