EYES WIDE SHUT, IL VOLTO CHE MUTA, Fermo, 2003

 

Raccogliere segni

Giovanni Ercoli durante una passeggiata in un pomeriggio autunnale è “inciampato” nella marginalità e i suoi luoghi, ed esplorandone le tracce ha dato vita ad un' operazione assimilabile a una specie di archeologia del dolore. Prelevare e preservare i “segni visivi” del passaggio di esistenze umane in luoghi di costrizione, in questo caso nell’ex ospedale psichiatrico di Fermo, occuparsi di “resti” di ciò che era già di per sé emarginato e marginale, è un modo concreto per sottolineare l’importanza del fattore residuale... di ciò che sfugge alle logiche sociali della “normalità”. In questo senso vanno lette le opere Raccogliere segni, che offrono alla percezione e alla coscienza dello spettatore qualcosa che sarebbe altrimenti rimasto nascosto tra le pieghe dell’oblio. Ercoli scopre una parentela profonda tra i percorsi del segno contenuti nella serie delle sue opere Cardi nocivi e velenosi rovi e quei “reperti segnici”, spontanee autoaffermazioni d’individualità in bilico e in difficoltà. Intreccia e contamina, imbastisce i segni propri mescolati a quelli altrui su grandi superfici che dispiega nello spazio come stendardi che presentano una strana, inquietante e per certi versi anche meravigliosa “segnaletica del profondo”. Scrive l’autore: << Un rimescolamento che attraverso la rappresentazione porta qualcosa che prima non era, alla presenza. A rammentarci cose non conosciute, pensieri che non sapevamo di avere (...)>>.                                                                                                                                                        Elisabetta Longari

 

 

 

SUL FILO DELL'ARTE,  Offida 2002

 

Giovanni Ercoli realizza delle tele attraverso un minuzioso impiego di matita, acqua e colla. II colore che deriva risulta essere un tutt’uno con la forma. Anche in questo caso si tratta di un'esecuzione lenta che permette all'artista di esternare delle forme simili ad archetipi del pensiero, ad organi del corpo o a paesaggi ideali. Le rotondità spesso si contrappongono agli spigoli e alle linee rette dando l'impressione che la stessa vita umana sia una dialettica tra il pensare e il fare. La dimensione fortemente onirica che scaturisce dal suo lavoro denota un marcato atteggiamento di autoascolto, una psicanalisi fatta per immagini, ossessiva o liberatoria a seconda dello stato d'animo di chi la osserva. L'artista infatti non entra in merito al significato ultimo delle sue opere, perché certe ragioni profonde possono essere spiegate soltanto attraverso la loro evidenza.

Francesca Pietracci

 

WELCOME, 2001

 

Sofisticati, leggeri, ma emotivamente caldi, i nuovi lavori di Giovanni Ercoli sopportano dimensione di un formato ridotto, l'evocazione dell'universo sensibile. L'artista dopo aver sperimentato per anni il discorso sulla materia e sull'assemblaggio installativo, si dedica ora ad ascoltare e a rappresentare la dimensione dello spazio interiore. Un lavoro di riflessione profonda capace di dilatare il fare fino al meditare, di ricomporre un'unità estetica come impegno di tutti i sensi, coinvolgimento di tutti i pensieri, rivelazione delle possibili intuizioni. Un silenzio cosmico pervade le sue atmosfere, un tempo di sospensione all'interno del quale le forme morbide e apparentemente organiche si alternano a costruzioni geometriche di richiamo quasi tecnologico. Le singole composizioni costruiscono una morfologia degli archetipi all'interno della quale la linea curva si intercala con quella spezzata dando forma ad una serie infinita di simboli riconducibili tanto alle culture occidentali quanto a quelle orientali. Ma sarebbe superfluo passare in rassegna tale banca dati dal momento che ogni spettatore può dare il via al suo viaggio per proprio conto ascoltando la sinfonia del profondo che queste opere mettono in scena. Non solo dalle forme, infatti, proviene questa netta sensazione, ma anche dalla gamma infinita di tonalità che percorrono la distanza tra il bianco e il nero, tra la riflessione e l'assorbimento della luce. Giovanni Ercoli afferma di vedere in bianco e nero e di ascoltare a colori e questa credo sia la chiave di lettura più aderente alle sue opere. Capovolgendo i termini, infatti, si tratta di un silenzio capace di farsi percepire dall'occhio, dallo sguardo ossessionato e stressato dell'essere contemporaneo. Un modo di fare arte, il suo, che per certi versi diventa terapeutico sia per chi la pratica che per chi la osserva.

Francesca Pietracci

 

 

 

RAVE/RAKE, 2000

  I paesaggi disegnati minuziosamente e sapientemente a matita da Giovanni Ercoli sembrano particolari di un unico spazio. Osservato singolarmente ogni paesaggio risulta prodotto della fantasia, così come scaturisce in modo quasi automatico (nel senso surrealista del termine) dalla rielaborazione di immagini del patrimonio della cultura visiva anche antica. Operando invece una percezione globale, in cui i disegni vengono fruiti legandoli l'uno all'altro visivamente lungo la linea dell'orizzonte, allora si ha la sensazione netta di essere dentro uno spazio concreto, reale pur nella sua immaterialità. Ovviamente uno spazio mentale, ma profondo e articolato. Ad unire l'andamento curvilineo delle colline sempre grigie è la linea d'orizzonte, quasi mai visibile, ma sempre immaginata dietro la forma in primo piano, così che finisce per essere il vero soggetto delle opere: l'elemento che non si vede, il punto focale della composizione e pure quello meno invisibile. La capacità che questo meccanismo sottile ed essenziale ha di produrre un senso di attesa e di ricerca, di sospensione dello sguardo e quindi di mistero è tutta concentrata in pochi centimetri, in piccoli formati molto simili tra loro, su supporto cartaceo o su tavole di legno, che sono come frammenti di uno spazio finalmente libero da vincoli gravitazionali.

Antonella Micaletti

 

 

 home