EYES WIDE SHUT
Mostra d'arte a cura di Elisabetta Longari
Auditorium S. Martino, Fermo (AP) dicembre 2003
Il titolo deriva dall’ ultimo - e postumo - film di Stanley Kubrick ed è traducibile letteralmente pressappoco in qualcosa di simile a << occhi spalancati ben chiusi>>. Come dire che gli occhi sigillati all’esterno rovesciano lo sguardo all’interno del corpo, a scrutare qualcosa di abitualmente inaccessibile. Già il gruppo dei Surrealisti prediligeva uno sguardo rivolto al profondo che scandagliasse le abissali contraddizioni delle pulsioni umane: privilegiava a tal punto il mondo interiore rispetto a quello delle apparenze esteriori da scegliere che nella fotografia ufficiale del gruppo ogni membro venisse ritratto con le palpebre abbassate. Una delle varie funzioni di cui l’arte si è incaricata è anche quella di dare udienza all’Altro che alberga in ciascuno. Tutti gli artisti raccolti intorno a questo momento espositivo si pongono diversamente in ascolto dei suoni del profondo. L’interno, il ventre di una chiesa barocca sconsacrata è il luogo ideale per contenere queste “emersioni”. Luana Trapè e Giovanni Ercoli durante una passeggiata in un pomeriggio autunnale sono “inciampati” nella marginalità e i suoi luoghi, ed esplorandone le tracce hanno dato vita a operazioni assimilabili a una specie di archeologia del dolore. Prelevare e preservare i “segni visivi” del passaggio di esistenze umane in luoghi di costrizione, in questo caso nell’ex ospedale psichiatrico di Fermo, occuparsi di “resti” di ciò che era già di per sé emarginato e marginale, è un modo concreto per sottolineare l’importanza del fattore residuale... di ciò che sfugge alle logiche sociali della “normalità”. In questo senso vanno lette le Storie di mattoni di Trapè e Raccogliere segni di Ercoli, opere che offrono alla percezione e alla coscienza dello spettatore qualcosa che sarebbe altrimenti rimasto nascosto tra le pieghe dell’oblio. Luana Trapè conferma la propria vocazione narrativa: a partire dalle tracce graffite lasciate da alcuni pazienti sui muri tenta di raggiungere l’individualità del loro autore; questi segni provocano nell’artista un processo di reverie che restituisce una voce a ciascuno, una voce che, attraverso un uso parco di parole intense, porta alla luce appena pochi cenni biografici, una voce che disegna una sorta di abbozzo molto sommario per un ritratto. Giovanni Ercoli invece scopre una parentela profonda tra i percorsi del segno contenuti nella serie delle sue opere Cardi nocivi e velenosi rovi e quei “reperti segnici”, spontanee autoaffermazioni d’individualità in bilico e in difficoltà. Intreccia e contamina, imbastisce i segni propri mescolati a quelli altrui su grandi superfici che dispiega nello spazio come stendardi che presentano una strana, inquietante e per certi versi anche meravigliosa “segnaletica del profondo”. Scrive l’autore: << Un rimescolamento che attraverso la rappresentazione porta qualcosa che prima non era, alla presenza. A rammentarci cose non conosciute, pensieri che non sapevamo di avere (...)>>. Giulio Calegari, “incallito rilevatore di segni”, anche questa volta, con l’installazione Tingere la luna, realizzata insieme a Gabriella Sozzi, propone un’opera aperta a più piste interpretative, comunque mai completamente decifrabile e orientabile in una sola direzione. In questo caso la costruzione dei discorsi possibili è affidata al “dialogo” tra un lenzuolo appoggiato sul pavimento, gli strumenti contenuti in una bacheca (per lo più lenti, provette e astrolabi) e una “voce” che mescola musica classica, composta di nobili note e musica concreta, fatta di rumori. Secondo la spiegazione dell’autore sul lenzuolo, che è quasi uno << strumento di territorializzazione, è tracciato a matita una sorta di nodo meandriforme allungato, da seguire con lo sguardo. Si tratta di un percorso apparentemente manifesto, come il moto del sole e della luna, ma che qui riflette uno spazio terrestre da frequentare: una pista tutt’altro che chiara. In sottofondo la registrazione di un brano musicale (Mozart: sonata per pianoforte K 545 con accompagnamento di trapani e martelli) per ironizzare sul lavoro e spaesare, con uno sgambetto, chi volesse cimentarsi con troppa serietà nell’impresa di percorrere il disegno misterioso >>. Quest’opera contiene quindi uno sberleffo che ha la funzione di ricordarci di non cedere mai alla tentazione, tanto rassicurante quanto sterile, di costringere e soffocare alcunché con la pretesa che i conti tornino in modo esatto e preciso. L’installazione di Gianluigi Castelli dal titolo Addio foglie morte ritaglia nello spazio chiassoso della vita un luogo appartato: la tenda leggera di tessuto bianco che la delimita è come una parentesi, una pausa. In questa “cella” sono presenti vari oggetti immersi nell’acqua in catini di zinco smaltato, oggetti fra i più disparati, testimonianze di alcuni eventi legati a diverse fasi della vita. Una voce, da un magnetofono appoggiato su un tavolo, parla in modo discontinuo proponendo spezzoni di un “discorso interiore” inframmezzati dalla ripetizione di un refrain di Celine, tratto da Pantomima per un’altra volta: <<Addio foglie morte! spropositi di ieri e pensieri/ al diavolo le tue sorti! Che il vento via ti porti!>>. Questo ritornello, una sorta di filastrocca dolce-amara, tenta di esorcizzare con ironia la vanità di ogni umano affanno, la “forzatura”, la “distorsione” che quasi ogni umana azione attua nei confronti dell’idea della fine. Il lavoro di Alessio Larocchi nasce prevalentemente da una predisposizione dell’autore all’ascolto di voci remote e flebili che sono all’interno di ciascuno, voci che egli “registra” e porta alla luce con sottigliezza e discrezione: non si tratta mai di qualcosa di annichilente come l’Urlo di Munch, anzi son sussurri che si sovrappongono gli uni agli altri creando un tessuto pacato anche se complesso e aperto. It’s about Freak sottolinea l’alterità come componente innegabile di ognuno e ne suggerisce il portato arricchente. La bacheca contiene una sorta di campionario espositivo di riproduzioni di organi del corpo umano che ricordano in certo modo gli ex voto, ma questi organi, a ben vedere, presentano delle anomalie: da ogni orifizio si affacciano piccole forme perturbanti che dimostrano di avere vita propria anche se estremamente legata e compromessa con quella del corpo che le ospita. Il video di Aurelio Andrighetto, Sette brevi pensieri e una percezione, salta ogni possibile discorso narrativo per installare la sua radicale natura direttamente alle fonti della visione. Nell’intermittenza di luci e ombre che sollecita ritmicamente la retina e i sensi tutti è come se riconoscessimo gli albori della visione, è come se vedessimo per la prima volta. L’artista racconta con precisione il percorso che lo ha portato a questo lavoro: <<Facendo le mie strampalate esperienze visive, ho verificato che alcune visioni non affiorano da una profondità psicologica, non sono cioè prodotti della soggettività, non appartengono alla nostra storia personale, non riguardano le nostre ossessioni private ma vengono da lontano e ci attraversano per caso.(...). Con questo video ho tentato di ricostruire il pensiero così come si forma, in un lampo, nella mia mente. Per la precisione, non si tratta del pensiero ma di una diversa e indipendente architettura della coscienza che è depositata sin dal principio, prima ancora che l’occhio sollevi la sua palpebra, nella struttura o, come direbbe James Gibson, nella tessitura della luce. (...). La forza di penetrazione di un film non sta dunque nella regia delle immagini registrate, selezionate, montate e mixate ma nella discontinua e irregolare distribuzione delle intensità luminose>>. Nel lavoro di Adele Prosdocimi c’è un aspetto fortemente coatto nonostante la sua incantata vertigine: una sorta di pacato impetus di bianca ossessività. Anche in questo caso, come per Andrighetto, non viene fatta alcuna affermazione individuale, anzi la pratica del fare dell’artista in questione potrebbe comodamente stare sotto l’egida del motto Ora et labora: presso le monache ricamare pizzi e trine è esercizio di annullamento dell’ego nell’infinita ripetizione del gesto, è una forma di votarsi al vuoto. Su tela, su argilla, con argilla, su carta, con carta, sotto cera, Adele dipinge, imprime, intreccia mirabili e fragili ragnatele dalla pulsazione visiva ipnotica. La sua opera dimostra una ricca vitalità: è un’incessante e proliferante autogenerazione di variazioni, formali e materiche, sul motivo; e nel suo insieme compone qualcosa che somiglia al suono potenzialmente infinito dell’arabesco. Ha la sua stessa aspirazione all’illimitatezza ed è prevalentemente accadimento luminoso. Fausta Squatriti attinge direttamente alle viscere incandescenti dell’esistenza e ne porta in primo piano “le scene primarie” con sguardo spietato e gelido, sempre. Con la stessa precisione e fermezza del film Gangs of New York di Martin Scorsese, il lavoro di Fausta svela il meccanismo di violenza inaudita e insopportabile che governa ogni sopravvivenza; nessuno è escluso, tanto meno noi che viviamo nel cuore della civiltà occidentale e conduciamo vite sofisticate ma fondamentalmente schiave della medesima legge della giungla. L’esistenza dalla notte dei tempi si svolge in un mattatoio, ogni opera di Fausta ci mette di fronte a questa cruda realtà e alla nostra implicazione, al nostro concorso di colpa per lo stato delle cose. Nel suo lavoro in generale, e in questo caso in particolare, siamo ben lontano da ogni intento illustrativo: La strage degli innocenti non è solo, come suggerisce il titolo, la rappresentazione di un episodio delle sacre scritture, ma assurge a metafora della storia dell’umanità tutta e di ciascuno, percorso fatto di scempi dalle sorprendenti e taglienti geometrie ineludibili, tragedia su cui regnano violenza, privazione e lutto. Ognuna di queste opere esposte testimonia di una peculiare modalità propria a ciascun artista di sprofondare il proprio sguardo al di là della pelle delle cose e di dare ascolto e corpo a ciò che è Altro ma che costantemente lavora dentro ognuno, di dare visibilità a quella voce che, se negata, genera mostri.
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