IL VOLTO CHE MUTA

 Prefazione dell'Associazione Periferie

 

La scintilla iniziale del progetto “Il volto che muta” scoccò quando Giovanni Ercoli  avvistò sui muri esterni dell’ex reparto Tanzi molti graffiti tracciati con tutta probabilità dai pazienti nelle ore d’aria. Alcuni di essi sono riprodotti  nel capitolo “Segni” e hanno ispirato le installazioni di Ercoli “Raccogliere segni” e l’opera “Storie di mattoni” di Luana Trapè.

Seguì una visita nei settori vuoti del complesso manicomiale che vive ormai sepolto nell’inconscio dei fermani, dopo aver rappresentato per tanti anni ”una delle aziende più fiorenti della città”, come dice il poeta Luigi Di Ruscio. Fu un’avventura emozionante scoprire all’interno dei moderni uffici dell’Asl un percorso segreto, un corpo nascosto dentro ad un altro corpo e fu allora che prese forma l’idea di una iniziativa per salvare la memoria del luogo, insieme alle esistenze della varia umanità che l'ha abitato. Il progetto fu presentato al dottor Giorgio Ripani, che lo condivise immediatamente.

Ricerche d’archivio sulle origini del manicomio nell’Ottocento gettarono luce sulle alterne vicende delle persone (Luana Trapè) e dello spazio architettonico (Manuela Vitali).

L’Istituto fermano per la Storia di liberazione nelle Marche raccolse le testimonianze di alcuni psichiatri che vissero sul campo i tumultuosi anni Settanta del secolo scorso.

Due autentici maestri fotografarono i reparti vuoti: Mario Dondero, reporter d’assalto, personaggio leggendario, abile nel fissare lampi di realtà, ed Eriberto Guidi, un protagonista della fotografia fermana  conosciuto anche all’estero, che sa cogliere atmosfere e suggestioni.

Tuttavia, per l’Associazione Periferie custodire il volto che non ci sarà più non vuol dire  limitarsi a conservare documenti del tempo trascorso, quanto piuttosto ascoltare gli echi del passato per costruire il presente, con un’attenzione particolare  all’ elaborazione estetica del presente.

Ecco allora l’Happening “L’uomo non è nato per il dolore”, magistralmente fotografato da Romano Folicaldi e infine la Mostra d’arte “Eyes wide shut”.

 

Scatti di Mario Dondero, Eriberto Guidi

 

Le fotografie presentano oggetti e ambienti dei reparti dell’ex Ospedale psichiatrico e insieme rappresentano ciò che non si vede, in particolare le persone che non ci sono più ma aleggiano in assenza.

Prendendo a prestito una frase di Roland Barthes, si può dire che queste foto “parlano troppo”, perché fanno meditare, suggeriscono un altro senso oltre alla lettera, sono cioè pensose, e poiché anche limitandosi al primo di livello di lettura (quello della semplice percezione visiva) esse appaiono splendide, possiamo definirle “belle e pensose”.

Le opere pubblicate dimostrano con evidenza che la fotografia, come dice la sua etimologia, è luce; le architetture infatti sono generate dalla luce come la riflessione è generata dall’emozione e l’immagine non è solo questione di visione, ma anche di ascolto, del silenzio per Guidi, delle tracce di voci per Dondero.

La differenza tra i due fotografi può essere percepita prendendo come esempio le foto del dottor Ripani: Dondero fa un ritratto dell’anima, della personalità nel suo stato vigile di un uomo che si presta ad incarnare il genius loci, mentre nella foto di Guidi spicca soltanto una silhouette costruita su contrasti netti. Il dottore è in negativo, preso in controluce, disegnato dal contorno bianco della luce.

 

Mario Dondero

Passato giovanissimo quasi direttamente dalla guerra partigiana nell’Ossola al giornalismo quale redattore del quotidiano Milano-sera, Mario Dondero si è dedicato durante una lunga carriera, tuttora attiva, ai temi del sociale con uno spiccato interesse per il mondo della medicina.

Attraverso varie forme di espressione mediatica (il cinema, la TV, la radio, le tante testate giornalistiche cui ha collaborato) ha cercato di essere testimone laddove un’altra medicina si faceva luce: l’esperienza fondamentale di Basaglia a Gorizia, l’ospedale di Fann a Dakar, la rara qualità della sanità a Cuba, l’originale approccio dei medici della Cina popolare ai particolari problemi posti in Africa dalle malattie epidemiche. Un “vissuto” che lo ha portato naturalmente ad interessarsi agli androni, ai recinti, alle grandi stanze ancora impregnate di passato dell’ex ospedale psichiatrico di Fermo. Collabora, dalla fondazione come rotocalco, al Manifesto, scrive e fotografa per il Venerdì della Repubblica e Il Diario. Dopo molti decenni trascorsi a Parigi, vive attualmente a Fermo.

La fotografia non è né lo scopo ultimo né quello preminente, in Dondero: semmai è lo strumento privilegiato per vivere la propria relazione con il mondo. La sua attenzione va tutta allo scatto, si disinteressa dello sviluppo e della stampa, che affida a laboratori specializzati,  al di fuori del suo controllo diretto. Le foto dell’ex manicomio sono una testimonianza che ogni luogo fu abitato e ogni oggetto fu toccato e guardato: è il vissuto che si fa immagine. L’inquadratura orizzontale è emblema di un reale colto in flagrante, non sublimato; la forma longitudinale allude ad un tempo cronologico.

 

 

Eriberto Guidi

Nasce nel 1930 a Fermo, dove vive e lavora. Si dedica alla fotografia dalla fine degli Anni Cinquanta. Inizia la sua attività nel campo del reportage e del racconto fotografico, privilegiando l’uso dell’immagine come vera e propria scrittura.

Da queste basi realistiche approda a una visione più onirica identificabile nei suoi lavori sul paesaggio, nei quali si riconosce il suo amore per la musica e la pittura.

Ha pubblicato libri fotografici e le sue foto sono apparse su riviste internazionali. Ha esposto in numerose mostre personali in Italia e all’estero e sue opere sono conservate in musei e fototeche.

Nelle sue opere appare evidente l’attenzione alle suggestioni e alle atmosfere, la cura per il processo di sviluppo e stampa che realizza personalmente con grande perizia e capacità artigianale nel senso più alto e nobile del termine.

Guidi fissa la sua attenzione sulle forme e nella tensione metafisica dell’immagine i neri sono fondi, gli oggetti sono protagonisti assoluti che hanno vita propria e ci interrogano. Anche l’inquadratura per lo più verticale è segnale di una tendenza “soggettiva”, autoreferenziale.

 

 

 

L’UOMO NON E’ NATO PER IL DOLORE

Happening tenuto nel Giardino del Padiglione Tanzi

Poesie lette da: Gabriella Colonnella, Daniela Del Bigio, Francesca Folicaldi, Elviana Graziani, Sara Trapè    

Installazioni “Raccogliere segni” di Giovani Ercoli

Video di Luana Trapè

Performance musicale: Gloria Strappa, voce, Andrea Strappa, campionatore, Domenico Cellini, percussioni, Rachid Tamimi, percussioni

 

A volte capita di assistere ad eventi musicali difficilmente classificabili, svolti in luoghi e contesti non convenzionali, seguendo strane modalità, secondo canoni che non sono canoni.

Per la loro stravaganza, tali manifestazioni di solito non lasciano significative tracce materiali, perché non assolvono alle ordinarie funzioni cui siamo abituati. Ma restano più facilmente nella memoria. E anche questo accade proprio in virtù della loro stravaganza, forse perché fanno pensare a tutto quello che ci perdiamo con le nostre abitudini.

Credo che la performance musicale del 26 luglio abbia assunto questo connotato di unicità, di fatto insolito. Vari elementi concorrono ad affermarlo: il luogo, il cortile dell'ex-manicomio, dove prima non si era mai svolto probabilmente un concerto; lo sfondo arioso degli alberi del parco e dei teli dipinti da Giovanni Ercoli; la proiezione in parallelo del video di Luana Trapè, con cui la musica interagiva; la commistione musicale di vari generi, dal serialismo mitteleuropeo alla ritmica di ascendenza africana; la inconsueta formazione strumentale, composta da una voce, un campionatore, varie percussioni; la scelta di testi poetici scritti da pazienti del Servizio Riabilitativo Residenziale del Dipartimento di Salute Mentale ASL n. 11.

Alla fine dunque - mi sembra con pertinenza - è stata la stravaganza, l'extra-vagari, a dare il segno ad una serata dedicata al manicomio dei matti, al manicomio di chi ha lasciato spesso caduche tracce materiali, ma indelebili tracce nel ricordo di chi li ha conosciuti.

Andrea Strappa

 

 

 

IL VOLTO CHE MUTA